“Mangio troppo oppure troppo poco, lavoro troppo oppure troppo poco, dormo troppo oppure troppo poco.
Il peso oscilla, non controllo la fame, il mio corpo porta tangibili i segni della sconfitta. Il piacere non esiste più, mi sono dimenticata come si prova. Il sonno se ne va, oppure riempie tutto il giorno. A volte mi odio, è sempre colpa mia, non capisco cosa mi stia succedendo ed è tutto un gran casino, dentro e fuori e allora il pensiero di farla finita diventa concreto ed esigente, quasi dovessi salvarmi gettandomi dalla finestra di un palazzo in fiamme”.F.D (Disturbo Borderline di Personalità)
«Bye bye Gio. We’re off to Ireland» (Ciao Gio. Andiamo in Irlanda). Sono le 16:40 del 3 gennaio.
Leggiamo l’ultimo tweet di Dolores O’Riordan e guardiamo la foto sgranata, scattata sotto una brutta luce.
Il suo viso è aperto e pallido come una luna, il corpo sottile, sottilissimo, il cappuccio calcato sul capo, un gatto stretto tra le braccia.
Adesso che Dolores è morta, adesso che qualcuno ha trovato il suo corpo freddo dentro il bagno di un albergo, adesso che il mondo intero si stringe nel dolore collettivo, quella foto diffusa sui social network sembra una premonizione, un segmento di futuro immortalato male dalla fotocamera di uno smartphone.
“Era terribilmente depressa”, hanno dichiarato gli amici.
Lei stessa, in precedenza, aveva confessato un passato di alcoolismo e problemi alimentari, un disturbo bipolare, una storia atroce di abusi e violenze subiti.
Cambiamo secolo, adesso e cambiamo carta.
Guardiamo “Il Dolore”, dipinto di Vincent Van Gogh del 1882.
Una donna gravida viene ritratta seduta sopra una pietra, con la testa abbandonata nelle braccia conserte.
E’ viva, perché vivo è il dolore che esplode da quel corpo sconfitto e che il pittore tratteggia, è viva mentre annega in se stessa circondata dai pochi elementi di una natura morta.
Questa donna si chiamava Clasina Maria Hoornik.
I suoi clienti la chiamavano “Sien”.
Era madre di due figli. Si prostituiva. Era alcoolizzata. Si uccise gettandosi nelle acque di un fiume.
“Come può esserci sulla terra una donna sola, abbandonata?”, scrive Van Gogh in calce alla sua opera e oggi, osservando queste due donne assolutamente dissimili per epoca e condizione e nome, Dolores l’una e Sien l’altra, ma unite nel dolore della fine, ce lo chiediamo anche noi.
In Italia circa 17 milioni di persone soffrono di dolore psichico.
Di queste, solo l’8-16% incontra un professionista e solo il 2-9% intraprende un percorso adeguato, fatto di farmaci e psicoterapia.
La quasi totalità vive una sbilenca vita da contrabbandieri, fatta di silenzi, senso di colpa e parole non dette.
In questa società dove tutto è un grande derby e si distingue ciò che è “normale” da ciò che non lo è così come si fa col bianco e col nero, parlare di dolore psichico è davvero difficile.
Chi ne soffre teme lo stigma e spesso tace. “Cosa penseranno gli altri?”.
Chi dovrebbe ascoltare talvolta si trincera dietro la negazione più ostinata. “Le malattie mentali non esistono”, “Dolores è morta per colpa di un brutto periodo”.
Il dolore psichico non è uno stato d’animo: si tratta di una patologia seria, dalle infinite declinazioni.
Il dolore psichico non causa sanguinamenti, non rompe le ossa, non altera i valori dell’ematocrito tuttavia fa male ed è un male atroce, asfissiante. Improvvisamente, si diventa terminali.
Di dolore psichico si muore, ma dal dolore psichico si può anche guarire.
Bisogna accettarlo e chiedere aiuto, bisogna capirlo e aiutare ma soprattutto bisogna parlarne, perché sulla Terra non esistano più donne o uomini soli e abbandonati, sommersi da una sofferenza taciuta e repressa, per portare finalmente la luce dentro una stanza buia, senza finestre.