Maggio è il mese in cui, negli ultimi quattro anni, si sono svolti di Diversity Media Awards. Per noi equivale a un mese ricchissimo di emozioni, soddisfazioni (imprevisti, disastri sventati e tante altre cose) e ovviamente di serie tv, film e programmi che hanno avuto il coraggio di mettere al centro Storie costruttive nel senso più letterale del termine: Storie che costruiscono identità, mondi, nuove visioni. Ecco quest’anno, per ovvi motivi, i Diversity Media Awards dovranno trovare una nuova veste e un nuovo momento (ci stiamo lavorando, speriamo di darvene notizia presto), però ci fa felici vedere che, grazie all’uscita di una serie come Hollywood di Ryan Murphy, disponibile su Netflix, possiamo continuare a parlare di quello che ci sta più a cuore: il potere, e il potenziale, che una narrazione consapevole, corretta, inclusiva ha su di noi.
Hollywood era una serie molto attesa: c’è chi l’ha definita una favola, chi un fantasy progressista, chi l’ha avvicinata alle nostalgiche atmosfere di C’era una volta a Hollywood di Tarantino, chi ha fatto notare come Murphy sia sempre fedele a sé stesso, magari peccando di ingenuità, magari sognando un po’ troppo a occhi aperti.
Ma il vero valore di Hollywood sta nel saper raccontare e costruire un mondo parallelo, un sistema, quello cinematografico, che ha la possibilità di diventare altro da sé grazie a una casualità, o forse meglio dire una fatalità (non faremo spoiler), che rimane fragile e delicato come una bolla: bellissima e pronta a scoppiare. Murphy questo non ce lo fa mai dimenticare: il percorso per ottenere una corretta rappresentazione è faticoso, e corre sempre il rischio di essere ostacolato da qualche sala riunioni piena di persone tutte un po’ troppe uguali fra di loro.
La serie di Ryan Murphy parla di cambiamento, di un modo nuovo di scrivere e produrre film – e qualsiasi altra cosa – che per gli anni 40 e 50 era “troppo grosso troppo presto”, ma che è quello che stiamo finalmente vivendo e vedendo anche noi negli ultimi anni e che anima tutto quello che c’è dietro le quinte dei Diversity Media Awards.
Durante i sette episodi di Hollywood ci viene mostrato, tra le altre cose, come per tantissimi anni gli attori e le attrici neri potevano aspirare al massimo a personaggi stereotipati, a ruoli di domestici e domestiche, ruoli comici o caricaturali, senza alcun spessore. Ce lo ricorda in maniera potente la storia di Hattie McDaniel, prima donna nera a vincere un Oscar nel 1940 per il ruolo di Mami in Via col vento. Quella di Hattie McDaniel è solo una delle storie vere che Murphy intreccia a quelle dei suoi personaggi inventati.
Nel 1937 fu veramente preferita la tedesca Luise Rainer ad attrici sino-americane come Anna May Wong per interpretare il ruolo di O-Lan ne La buona terra. Oggi lo chiamiamo white washing, e si è imparato a riconoscere e denunciarlo, ma per tantissimi anni è stata la prassi.
Mentre il vero Rock Hudson, considerato uno dei sex symbol della magica Hollywood, fu costretto dall’agente Henry Wilson a sposare la sua segretaria, per mettere a tacere le voci sulla sua omosessualità, un assoluto tabù per i tempi.
Per non parlare poi del Codice Hays, a cui i personaggi di Murphy fanno riferimento, che prevedeva, per esempio, il divieto assoluto di rappresentare sullo schermo coppie di persone di differente etnia o coppie same gender. Vi consigliamo di scoprire cosa prevedeva il codice morale seguito dagli Studios fino al 1967.
Hollywood è una serie manifesto, con momenti chiaramente programmatici come il discorso di Eleaonor Roosevelt, alla fine del quarto episodio, ma è utile e potente anche a un livello di lettura meno chiaro ed esplicito. Bellissima, per esempio, la scena in cui Avis Amberg (Patti LuPone) ed Ellen Kincaid (Holland Taylor) si confrontano su come Ellen dovrebbe provare a invitare a cena il produttore degli Studios Dick Samuels. Una scena che non avrebbe nulla di inconsueto (due donne che parlano d’amore? Sai che novità) se non fosse per l’età delle protagoniste: due donne che per la società sono considerate troppo vecchie per avere ancora qualsiasi aspirazione sentimentale o desiderio sessuale ci ricordano che non sono solo le liceali a dover parlare di amore davanti a una macchina da presa. E ancora, alcune battute come il “It’s ok to be emotional” che Claire rivolge a un Jack in lacrime in un bar (uomini, potete piangere!) o la riflessione che Avis fa su come vengono interpretate le decisioni prese da una donna al comando: emotive, irrazionali, dettate dall’impulsività. E non frutto di competenza.
What if we could rewrite the story, leggiamo nella locandina di Hollywood. Una domanda retorica, ma non ingenua: sappiamo benissimo che la Storia non si può riscrivere, si può solo scrivere. Murphy costruisce un mondo in cui sceneggiatori neri e gay possono veder prodotti i propri film e una donna può stare a capo di uno Studios e lo fa calandolo in un passato che ha del fantastico e dell’impossibile.
Quello che dobbiamo fare noi, sembra dirci Murphy, è far sì che quello che lui ci mostra come il Passato diventi il Futuro.
Per tutti questi motivi, e perché è maggio, vi consigliamo caldamente di non perdere assolutamente questa serie tv..